Perché connettersi?
È paradossale che in tempo di pandemia, mentre restrizioni, lockdown e distanziamento fisico minacciano il nostro modello di globalizzazione, sia proprio il senso di paura, il rischio di contagio e la paura di ammalarsi o morire ciò che ci sta di fatto accumunando ad un destino comune.
Pochi eventi dal dopoguerra ad oggi hanno avuto un carattere così fortemente globale come questa pandemia, eppure questa stessa sta minando i nostri principi fondamentali sul mondo globalizzato, connesso ed in perenne movimento.
Già all’inizio della crisi epidemiologica, con il primo lockdown, noi Italiani abbiamo pensato che nulla sarebbe più stato come prima. Eppure tutto è restato uguale. Questa crisi è stata vissuta di fatto come un’emergenza e la risposta, di conseguenza, è stata emergenziale.
Ma quanto siamo davvero disposti ad un cambiamento? Cosa vuol dire veramente che nulla sarà più come prima? Siamo disposti a cambiare il nostro modello di sviluppo alla luce di segnali ben più catastrofici quali il cambiamento climatico, l’aumento demografico, le migrazioni di massa, lo sfruttamento delle risorse naturali ed il conseguente collasso di vari ecosistemi vitali, o siamo solo capaci di reagire all’impatto violento ed evidente della pandemia senza minimamente voler mettere in discussione il nostro paradigma?
Abbiamo detto “è cambiato tutto” e non era cambiato nulla. Nulla di efficace, di duraturo. Nulla nelle nostre menti, nelle nostre relazioni. Era un’emergenza e così l’abbiamo vissuta, con la spettacolarizzazione del “nulla sarà più lo stesso”. Pochi di noi però ci avevano veramente creduto, perché pochi ci avevano veramente riflettuto. Ma adesso che l’emergenza sta pian piano tramutandosi in quotidianità ed ora che il tempo non vede orizzonte, siamo in fuga da una bomba ad orologeria. La fame o anche solo la perdita dell’agio sarà il vero motore di cambiamento. È triste ma sembra che non ci muoviamo se non poco, pochissimo prima della catastrofe. Non sarà tutto come prima, ma il timore non dev’essere per il cambiamento, quanto per il fatto che siamo oggi impreparati al futuro. Non al domani sempre uguale, ma al FUTURO – una prima parola chiave – inteso come il domani che ha bisogno di visioni, di slancio, di creatività e d’invenzione. Di coraggio. Dobbiamo essere onesti con noi stessi ed ammettere che le poche immagini di futuro, di voglia di futuro, provenivano ultimamente dai barchini di disperati. Da mamme con bambini, da giovani sguardi impauriti ma viaggiatori. Meno da improbabili ministeri a molla, meno da indolenti e miopi investitori, meno da jet setters, da professionisti e professori, meno da poeti e scrittori in cerca dell’ultimo premio, da cineasti gemelli e scialbi e da artisti festaioli e monaci (nel vestito). Dovremmo riprenderci la vita a morsi.
DISCUSSIONE è forse una seconda parola chiave in questo momento; provare a discutere e “mettere in discussione” i nostri modelli, le nostre abitudini, le nostre mitologie contemporanee e provare a costruire una visione per l’oggi in grado di rispondere alla pandemia con responsabilità ed al di fuori dell’emergenza.
Riteniamo che questo sia un obbligo non procrastinabile che debba invece muoversi dentro e fuori i canali dell’emergenza come movimento culturale.
Infine, la terza parola chiave è BELLEZZA. Non intesa però come un dato, ma come un compito. Una domanda senza risposta, come musicò Charles Ives, sul cui sfondo resta imperituro il silenzio dei druidi. A che serve la vita?
Questa domanda è la risposta ad un’altra domanda: a che serve la cultura?
Oggi appare un paradosso utile. Ci siamo abituati a valutare anche la cultura in base alla capacità di muovere economia, di essere “sostenibile”, di produrre reddito, etc.
Ma è forse arrivato il momento di comprendere che non è la cultura a dover procurarsi sostenibilità. È piuttosto la sostenibilità che non può essere realizzata senza un progetto culturale. La cultura non è un lusso, e neanche un bene. La cultura siamo noi, il nostro passato, il nostro tempo. È più di ogni altra cosa il nostro futuro.
Il moto perpetuo del nostro vivere comunitario, il nostro orizzonte umano diventano vuoti se non sono in grado di produrre bellezza. Se la bellezza, invece che essere un’eredità, non diventa un compito, un obbiettivo sociale. Economia, salute, comunicazione, benessere diventano simulacri di se stessi, se noi esseri umani non siamo più in grado di porci senza risposta questa domanda: a che serve la vita?
E poi senza poesia, senza dramma, senza bellezza dove siamo diretti? La poesia è saper camminare da solo sentendo il proprio respiro in ogni cosa che vedi; il dramma è il ritmo narrante delle tue esperienze, delle relazioni; la bellezza è sapere che nulla è più importante di quell’effimera emozione del tuo sguardo, del tuo udito, del tuo corpo. Così senza libri, senza teatri e senza musei cominceremmo a cambiare.
Art Rethinks Transformation è in tal senso un tavolo di confronto che vuole offrire un contributo artistico per la costruzione di visioni su questo presente e declinarle al futuro. ART si articola attraverso una piattaforma virtuale e prova ad essere un punto di connessione tra luoghi diversi ma convergenti. Come è possibile non perdere il patrimonio umano di relazioni che abbiamo faticosamente coltivato e costruito in questo momento di forti restrizioni ed obbligo di distanza? Come è possibile mantenere il tema della “presenza” fondamentale per le arti performative ed applicate e tutto il mondo di connessioni e relazioni che lo alimenta? È plausibile immaginare modelli ibridi tra presenza e connessione virtuale, tali da implementare entrambe le funzioni senza mortificarne una a discapito dell’altra? ART non intende certo dare risposte a tali domande, ma vuole porsi come luogo di sperimentazione e di esperienza, senza attendere la fine dell’emergenza. Esplorare dunque diverse modalità d’interazione e riflettere su come sperimentare nuove modalità di curatela culturale che possano facilitare scambio ed aggregazione in sicurezza.
Ma quanto siamo davvero disposti ad un cambiamento? Cosa vuol dire veramente che nulla sarà più come prima? Siamo disposti a cambiare il nostro modello di sviluppo alla luce di segnali ben più catastrofici quali il cambiamento climatico, l’aumento demografico, le migrazioni di massa, lo sfruttamento delle risorse naturali ed il conseguente collasso di vari ecosistemi vitali, o siamo solo capaci di reagire all’impatto violento ed evidente della pandemia senza minimamente voler mettere in discussione il nostro paradigma?
Abbiamo detto “è cambiato tutto” e non era cambiato nulla. Nulla di efficace, di duraturo. Nulla nelle nostre menti, nelle nostre relazioni. Era un’emergenza e così l’abbiamo vissuta, con la spettacolarizzazione del “nulla sarà più lo stesso”. Pochi di noi però ci avevano veramente creduto, perché pochi ci avevano veramente riflettuto. Ma adesso che l’emergenza sta pian piano tramutandosi in quotidianità ed ora che il tempo non vede orizzonte, siamo in fuga da una bomba ad orologeria. La fame o anche solo la perdita dell’agio sarà il vero motore di cambiamento. È triste ma sembra che non ci muoviamo se non poco, pochissimo prima della catastrofe. Non sarà tutto come prima, ma il timore non dev’essere per il cambiamento, quanto per il fatto che siamo oggi impreparati al futuro. Non al domani sempre uguale, ma al FUTURO – una prima parola chiave – inteso come il domani che ha bisogno di visioni, di slancio, di creatività e d’invenzione. Di coraggio. Dobbiamo essere onesti con noi stessi ed ammettere che le poche immagini di futuro, di voglia di futuro, provenivano ultimamente dai barchini di disperati. Da mamme con bambini, da giovani sguardi impauriti ma viaggiatori. Meno da improbabili ministeri a molla, meno da indolenti e miopi investitori, meno da jet setters, da professionisti e professori, meno da poeti e scrittori in cerca dell’ultimo premio, da cineasti gemelli e scialbi e da artisti festaioli e monaci (nel vestito). Dovremmo riprenderci la vita a morsi.
DISCUSSIONE è forse una seconda parola chiave in questo momento; provare a discutere e “mettere in discussione” i nostri modelli, le nostre abitudini, le nostre mitologie contemporanee e provare a costruire una visione per l’oggi in grado di rispondere alla pandemia con responsabilità ed al di fuori dell’emergenza.
Riteniamo che questo sia un obbligo non procrastinabile che debba invece muoversi dentro e fuori i canali dell’emergenza come movimento culturale.
Infine, la terza parola chiave è BELLEZZA. Non intesa però come un dato, ma come un compito. Una domanda senza risposta, come musicò Charles Ives, sul cui sfondo resta imperituro il silenzio dei druidi. A che serve la vita?
Questa domanda è la risposta ad un’altra domanda: a che serve la cultura?
Oggi appare un paradosso utile. Ci siamo abituati a valutare anche la cultura in base alla capacità di muovere economia, di essere “sostenibile”, di produrre reddito, etc.
Ma è forse arrivato il momento di comprendere che non è la cultura a dover procurarsi sostenibilità. È piuttosto la sostenibilità che non può essere realizzata senza un progetto culturale. La cultura non è un lusso, e neanche un bene. La cultura siamo noi, il nostro passato, il nostro tempo. È più di ogni altra cosa il nostro futuro.
Il moto perpetuo del nostro vivere comunitario, il nostro orizzonte umano diventano vuoti se non sono in grado di produrre bellezza. Se la bellezza, invece che essere un’eredità, non diventa un compito, un obbiettivo sociale. Economia, salute, comunicazione, benessere diventano simulacri di se stessi, se noi esseri umani non siamo più in grado di porci senza risposta questa domanda: a che serve la vita?
E poi senza poesia, senza dramma, senza bellezza dove siamo diretti? La poesia è saper camminare da solo sentendo il proprio respiro in ogni cosa che vedi; il dramma è il ritmo narrante delle tue esperienze, delle relazioni; la bellezza è sapere che nulla è più importante di quell’effimera emozione del tuo sguardo, del tuo udito, del tuo corpo. Così senza libri, senza teatri e senza musei cominceremmo a cambiare.
Art Rethinks Transformation è in tal senso un tavolo di confronto che vuole offrire un contributo artistico per la costruzione di visioni su questo presente e declinarle al futuro. ART si articola attraverso una piattaforma virtuale e prova ad essere un punto di connessione tra luoghi diversi ma convergenti. Come è possibile non perdere il patrimonio umano di relazioni che abbiamo faticosamente coltivato e costruito in questo momento di forti restrizioni ed obbligo di distanza? Come è possibile mantenere il tema della “presenza” fondamentale per le arti performative ed applicate e tutto il mondo di connessioni e relazioni che lo alimenta? È plausibile immaginare modelli ibridi tra presenza e connessione virtuale, tali da implementare entrambe le funzioni senza mortificarne una a discapito dell’altra? ART non intende certo dare risposte a tali domande, ma vuole porsi come luogo di sperimentazione e di esperienza, senza attendere la fine dell’emergenza. Esplorare dunque diverse modalità d’interazione e riflettere su come sperimentare nuove modalità di curatela culturale che possano facilitare scambio ed aggregazione in sicurezza.
Perché Palermo?
La mappa della nostra geografia cognitiva è fatta principalmente di città. I luoghi, gli eventi, e persino il nostro immaginario sul mondo seguono la logica di una mappa in cui i punti neri delle città interrompono il flusso continuo della terra. Le città però rappresentano, prima di ogni altra cosa, comunità urbane ed esse inglobano, in questo immaginario, un intero territorio con i suoi paesaggi e le sue specificità immateriali.
Palermo in tal senso è dunque sì un luogo, un altro punto nero di riferimento nella mappa geografica, ma è anche lo snodo attraverso cui un territorio, una regione, una cultura, si interrogano.
Reduce da una fase sperimentale, con Capitale Italiana della Cultura e Manifesta, quale hub di connessione globale, essa si pone nel Mediterraneo come luogo di scambio e di approdo per le culture che lo attraversano. Connotata da una storia millenaria di contaminazioni, la sua cultura è fortemente sincretica. Il Mediterraneo, però, non è un mero confine geografico ma un orizzonte culturale a cui rivolgersi, intriso di storia e di culture, e rappresenta un arcipelago di identità in costante connessione ed interdipendenza. Ed è per questo motivo che può diventare, proprio oggi che è tristemente noto come scenario di massicce migrazioni e tragedie umane, paradigma di un’umanità in cerca di futuro. Un luogo d’incontro tra identità autonome e ben definite ed in costante trasformazione.
Ma per poter cogliere le sfide della contemporaneità è necessario leggere le dinamiche del territorio e renderle narrazione per un contesto ed un pubblico globale. Da un lato consolidare e rafforzare il microcosmo della polis, dall’altro usare un linguaggio ed argomenti universali.
Abbiamo dunque immaginato che Palermo possa nuovamente offrirsi come virtuale punto di snodo e di contatto tra altri luoghi urbani, luoghi di aggregazione e di socializzazione, città.
La prima immagine scelta per descrive il progetto ART è dunque una rosa dei venti, immagine del mare ed al contempo del vento. Di questa rosa Palermo è arbitrariamente il centro: al Sud Tripoli o Lagos? A Nord Spalato, o Göteborg? A Nord-Est Nizza, o Londra? a Est Marsiglia o NY? A Ovest Istanbul, Tbilisi o Samarcanda? A Sud Ovest? Beirut, Shiraz, Mumbai o Bangkok? Non esiste un centro del mondo da cui dipanare le fila di una rotta lineare. Ma si può scegliere di essere centro, e per Palermo essere centro vuol dire essere un Mediterraneo che abbraccia il mondo. Un mare di umanità e culture.
Why connect?
It is paradoxical that in times of pandemic, while restrictions, lockdown and physical distancing threaten our model of globalization, it is precisely the sense of fear, the risk of contagion and the fear of getting sick or dying that is what is actually uniting us with a common destiny.
Few events since the post-war period have had such a strong global character as this pandemic, yet it is undermining our fundamental principles about the globalised, connected and ever-moving world.
Already at the beginning of the epidemiological crisis, with the first lockdown, we Italians thought that nothing would ever be the same again. And yet everything remained the same. This crisis was in fact experienced as an emergency and the response, as a consequence, was an emergency.
But how much are we really willing to change? What does it really mean that nothing will ever be the same again? Are we willing to change our development model in the light of much more catastrophic signals such as climate change, population growth, mass migration, exploitation of natural resources and the consequent collapse of various vital ecosystems, or are we just able to react to the violent and obvious impact of the pandemic without questioning our paradigm at all?
We said “everything has changed” and nothing had changed. Nothing effective, nothing lasting. Nothing in our minds, in our relationships. It was an emergency and so we experienced it, with the spectacle of “nothing will ever be the same again”. Few of us, however, had really believed it, because few had really thought about it. But now that the emergency is slowly turning into everyday life and now that time sees no horizon, we are fleeing from a time bomb. Hunger or even just the loss of ease will be the real engine of change. It is sad but it seems that we are not moving if not little, just before the catastrophe. Everything will not be the same as before, but the fear must not be for change, but for the fact that today we are unprepared for the future. Not tomorrow always the same, but the FUTURE – a first key word – understood as tomorrow that needs visions, impetus, creativity and invention. Of courage. We have to be honest with ourselves and admit that the few images of the future, of the desire for the future, have been coming lately from the punts of desperate people. From mothers with children, from frightened but travelling young gazes. Less from improbable wind-up ministries, less from lazy and short-sighted investors, less from jet setters, professionals and professors, less from poets and writers in search of the last prize, from twin and dull filmmakers and party artists and monks (in dress). We should bite back on our lives.
DISCUSSION is perhaps a second key word at the moment; try to discuss and “question” our models, our habits, our contemporary mythologies and try to build a vision for today that can respond to the pandemic responsibly and outside the emergency.
We believe that this is an obligation that cannot be postponed and that it must instead move in and out of the emergency channels as a cultural movement.
Finally, the third keyword is BEAUTY. Not as a fact, but as a task. An unanswered question, as Charles Ives set to music, against whose background the silence of the Druids remains imperishable. What is life for?
This question is the answer to another question: what is culture for?
Today it seems a useful paradox. We have become accustomed to evaluating even culture on the basis of its capacity to move economy, to be “sustainable”, to produce income, etc.
But perhaps the time has come to understand that it is not culture that has to provide sustainability for itself. Rather, it is sustainability that cannot be achieved without a cultural project. Culture is not a luxury, nor is it a good. Culture is us, our past, our time. More than anything else, it is our future.
The perpetual motion of our community life, our human horizon become empty if they are unable to produce beauty. If beauty, instead of being a legacy, does not become a task, a social objective. Economics, health, communication, well-being become simulacra of themselves, if we human beings are no longer able to ask ourselves this question without an answer: what is life for?
And then without poetry, without drama, without beauty where are we headed? Poetry means knowing how to walk alone, feeling your own breath in everything you see; drama is the narrating rhythm of your experiences, of your relationships; beauty means knowing that nothing is more important than that ephemeral emotion of your gaze, of your hearing, of your body. So without books, theatres and museums we would start to change.
Art Rethinks Transformation is, in this sense, a discussion tableaiming to offer an artistic contribution for the construction of visions on this present and to apply them to the future. ART is articulated through a virtual platform and tries to be a point of connection between different but convergent places. How is it possible not to lose the human heritage of relationships that we have laboriously cultivated and built in this moment of strong restrictions and obligation of distance? How is it possible to maintain the theme of the fundamental “presence” for the performing and applied arts and the whole world of connections and relationships that feeds it? Is it plausible to imagine hybrid models between presence and virtual connection, so as to implement both functions without mortifying one to the detriment of the other? ART certainly does not intend to give answers to these questions, but sets out as a place of experimentation and experience, without waiting for the end of the emergency. Therefore, it explores different ways of interaction and reflects on how to experiment new ways of cultural curationwhich can facilitate exchange and aggregation in safety.
Why Palermo?
The map of our cognitive geography is mainly made up of cities. Places, events, and even our imagery about the world follow the logic of a map in which the black dots of cities interrupt the continuous flow of the earth. Cities, however, represent, before anything else, urban communities and they incorporate, in this imagery, an entire territory with its landscapes and its immaterial specificities.
Palermo, in this sense, is indeed a place, another black point of reference in the geographical map, but it is also the junction through which a territory, a region, a culture, question themselves.
It is the result of an experimental phase, with the Italian Capital of Culture and Manifesta, as a hub of global connection, it lies in the Mediterranean as a place of exchange and landing place for the cultures that cross it. With a millenary history of contamination, its culture is strongly syncretic. The Mediterranean, however, is not a mere geographical border but a cultural horizon to turn to, steeped in history and culture, and represents an archipelago of identities in constant connection and interdependence. And this is the reason why it can become, just today that it is sadly known as a scenario of massive migrations and human tragedies, a paradigm of a humanity in search of a future. A meeting place between autonomous and well-defined and constantly changing identities.
But in order to meet the challenges of the contemporary world it is necessary to read the dynamics of the territory and make them narrated for a global context and audience. On the one hand to consolidate and strengthen the microcosm of the polis, on the other hand to use a universal language and arguments.
We have therefore imagined that Palermo can once again offer itself as a virtual junction and contact point between other urban places, places of aggregation and socialization, cities.
The first image chosen to describe the ART project is therefore a windrose, image of the sea and the wind at the same time. Palermo is arbitrarily the centre of this rose: to the South Tripoli or Lagos? To the North Split, or Gothenburg? To North-East Nice, or London? To the East Marseille or NY? To the West Istanbul, Tbilisi or Samarkand? To South West? Beirut, Shiraz, Mumbai or Bangkok? There is no centre of the world from which to unravel the ranks of a linear route. But you can choose to be centre, and for Palermo being centre means being a Mediterranean that embraces the world. A sea of humanity and cultures.
Il direttore Artisco
Andrea Cusumano
